Introduzione
Work - life balance dice efficacemente di un equilibrio mutevole continuamente da ricercare tra vita personale e vita professionale, a seconda delle fasi del corso di vita relativamente alla sfera privata e pubblica. Il termine “conciliazione” – imposto dall’UE nel quadro delle politiche occupazionali delle donne - ha insita invece l’ambivalenza, spesso denunciata soprattutto dal movimento femminista, volta a negare la conflittualità presente fra interessi antagonisti: di donne e uomini, delle organizzazioni produttive e dei bisogni/desideri delle donne. Nel nostro paese le politiche di conciliazione si sono inserite sul tessuto della cultura e delle pratiche politiche dei tempi urbani, orientate a dare una prima risposta ai bisogni di organizzazione dei tempi di vita delle donne della “doppia presenza” tra lavoro, servizi e vita familiare, senza dimenticare il “tempo per sé”. Una tematica e una pratica politica che hanno coinvolto segmenti importanti del movimento delle donne. Con la L. 8 marzo n.53 del 2000 (Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione, per il coordinamento dei tempi della città) oltre ad adempiere a una raccomandazione europea si è offerta una cornice normativa a interventi che collegassero vita lavorativa e privata familiare: congedi per genitorialità e formazione, flessibilità “amica” degli orari di lavoro delle imprese (art.9), tempi e orari dei servizi della città. Rendendo così esplicita la necessità, o la sfida, della possibile conciliazione tra la sfera del lavoro e quella personale/familiare, anche per aumentare in modo consistente l’occupazione femminile. Ma i risultati alla fine sono deludenti, perché queste politiche sono rimaste marginali nel nostro paese in quanto ritenute non “produttive”, quasi un “lusso” riservato ai bisogni delle (sole) donne.
Analisi/alcuni dati
In Italia dal 2009 ad oggi il peso della crisi economica, ma anche sociale, si è riversato in modo particolarmente pesante sulle vite femminili, delle diverse generazioni. Oltre alla disoccupazione vera e propria (13,1%; quella maschile è del 11,5%; Istat, 2014), per le giovani, anche le più istruite, vi è una precarizzazione diffusa di lavori atipici spesso discontinui che provocano insicurezza esistenziale e difficoltà a mettere in atto strategie di vita, ivi compresa la maternità. Senza dimenticare che i processi di precarizzazione colpiscono anche quarantenni e cinquantenni che non riescono a ricollocarsi sul mercato del lavoro. Tanto è vero che oggi il tasso di occupazione femminile nel nostro paese, ben lungi dall’orientarsi verso quanto previsto dalla UE (60% per le donne Trattato di Lisbona; 75% al 2020 per donne e uomini), è alle ultime posizioni in Europa con il 46,5%; l’occupazione delle straniere è in calo in %, e si crea uno scarto soprattutto in presenza di figli rispetto alle italiane fino a 49 anni (56,2% contro 42,4% delle straniere): fattori culturali si accompagnano a una mancanza di reti familiari e amicali più pesanti nella migrazione (Istat, 2014). Una debolezza strutturale che, frutto anche delle tradizionali politiche di welfare e della organizzazione dei servizi, provoca un accentuarsi dell’orientamento familista di uno Stato debole le cui politiche per la famiglia (nelle sue molteplici forme, da quelle monoparentali a quelle “arcobaleno”) sono venute via via riducendosi (l’Italia e’ uno dei Paesi europei con minore spesa per servizi alla famiglia, pari a circa 1,58% del PIL). La crisi economica ha comportato tagli nella spesa sociale che si sono riversati in maniera particolarmente acuta sugli enti locali, messi nella impossibilità di rispondere ai bisogni di cura del territorio con nuovi investimenti sui servizi, talvolta riducendo anche quelli esistenti. Le situazioni più sensibili riguardano i bambini 0-2 anni: 11,8% la copertura 0-2 anni da parte di nidi pubblici, 18,7% comprendendo i servizi integrativi, ben al di sotto dell’indice del 33% al 2010 previsto dalla UE, con enormi squilibri tra le regioni italiane; 48,1% i Comuni che offrono nidi e servizi integrativi pubblici; (Istat, 2014), tempo pieno e servizi integrativi nella prima età scolare (le classi con tempo pieno nella scuola primaria non superano il 50% in nessuna regione, con accentuati divari tra nord e sud; in: “Rapporto di aggiornamento Save the Children”, 2012-13 ), l’assistenza alle diverse forme di disabilità e ai bisogni della popolazione anziana.
Ciò comporta un aggravio dell’insieme del lavoro di cura che pesa sempre più sulle reti familiari, a loro volta più deboli anche per l’allontanamento dell’età pensionabile delle e dei nonni che hanno svolto in Italia un ruolo fondamentale di supplenza di servizi carenti o assenti per la prima infanzia. Per quanto i dati sui bilanci tempo familiari facciano notare che c’è una parte di giovani uomini differentemente coinvolti nella gestione del lavoro domestico e genitoriale, tuttavia i fattori prima indicati comportano un aggravio della fatica delle donne, in particolare di quelle della generazione di mezzo (le cosiddette “donne sandwich” responsabilizzate verso anziani e bambini) che mettono in atto meccanismi di difesa riducendo le attività domestiche. Anche per questo l’indice di asimmetria dell’attività familiare fra uomini e donne va lentamente riducendosi (Istat, 2011).
In questa situazione è difficile scegliere la maternità e non per caso il livello di fecondità è molto basso (1,42 numero medio di figli per donna, Istat, 2014), un dato in discesa peraltro sostenuto dalle donne migranti (1,29 per le italiane), e un’età media delle madri in aumento (32,1 anni per le italiane). Non solo si rileva uno scostamento fra il desiderio di maternità e la possibilità effettiva di realizzarlo, come molte ricerche dimostrano, ma per coloro che accettano questo “rischio” si profila spesso la dura necessità di scegliere fra maternità e lavoro: infatti una giovane madre su quattro lascia il lavoro nei primi due anni di vita del figlio perché impossibilitata a trovare soluzioni “conciliative” che permettano di gestire contemporaneamente lavoro e vita privata. Una (non) scelta alla quale contribuiscono vari fattori: la mancanza di servizi (nidi in particolare, senza dimenticare il loro costo spesso insostenibile per finanze familiari fragili), la rigidità delle organizzazioni lavorative nel concedere orari friendly, da ultimo anche l’insoddisfazione per un lavoro che può essere di qualità scarsa e penalizzato nella retribuzione (come dimostrano i dati sul gender pay gap). Fenomeni denunciati anche dall’ultimo Rapporto Istat/ 2014 che osserva: “Cresce la quota di donne occupate in gravidanza che non lavora più a due anni di distanza dal parto (22,3 % nel 2012 dal 18,4 nel 2005)... Aumenta anche la quota di donne con figli piccoli che lamentano le difficoltà di conciliazione tra chi il lavoro lo mantiene (dal 38,6 per cento al 42,7 per cento); la quantità di ore di lavoro, la presenza di turni o di orari disagiati (pomeridiano o serale o nel fine settimana) e la rigidità dell’orario sono indicati da più di un terzo delle occupate come gli ostacoli prevalenti alla conciliazione”.
Fatti oggettivi e contingenze determinate dalla crisi economica e sociale si collocano in un contesto culturale il cui paradigma e’ ancora quello (post) patriarcale dei ruoli maschili e femminili, magari sottotraccia e ammodernati, secondo il quale il lavoro professionale delle donne è secondario o comunque complementare, (anche se è in aumento – 12,2%- la percentuale di famiglie con donne breadwinner, Istat, 2014), mentre quello familiare non retribuito rimane non riconosciuto. Il lavoro per il mercato delle donne, invece, rientra a tutti gli effetti tra i fattori di sviluppo di un paese, e farebbe crescere l’Italia: una maggiore partecipazione femminile al lavoro potrebbe far aumentare il Pil pro-capite in Italia di 1 punto percentuale all’anno, (“Ingenere”, maggio 2014 ) come da tempo sostengono economiste ed economisti e recentemente anche Cristine Lagarde Direttrice del FMI.
Raccomandazioni
In un paese in cui le criticità sono decisamente prevalenti e di diversa natura, e’ necessario agire su due direttrici tra loro interagenti:
Per fare ciò serve un’ Agenda del Governo dettagliata negli ambiti di intervento, negli obiettivi, nelle scadenze temporali (almeno triennale) e negli investimenti, le cui diverse fasi siano monitorate in itinere e valutate alla fine, che contempli l’integrazione dei diversi attori chiamati ad agire per accrescere l’occupazione femminile, anche qualitativamente, e la sostenibilità fra lavoro e vita personale con misure quali:
Solo con iniziative integrate e trasversali che si muovano a tutto campo, e costruite in maniera partecipata, si potranno
ottenere risultati efficaci su un problema che il Rapporto Istat 2014 definisce, parlando delle “politiche di conciliazione”, un “nodo cruciale”.
Bibliografia essenziale
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A. Casarico, P. Profeta, Donne in attesa. L’Italia delle disparità di genere, Egea, 2010
A. Casarico, P. Profeta, Più donne sul mercato del lavoro per aiutare il Pil, 05-01-12, www.banchedati.ilsole24ore.com
D. Del Boca, L.Mencarini, S. Pasqua, Valorizzare le donne conviene, Il Mulino, 2012
M. Ferrera, Il fattore D. Perché il lavoro delle donne farà crescere l’Italia, Mondadori, 2008
A. Ichino, Riavvicinare le donne al mercato del lavoro: ecco un modello made in Italy, in Corriere della sera, 10 -03-2012
M. Naldini, C. Saraceno, Conciliare famiglia e lavoro. Vecchi e nuovi patti tra sessi e generazioni, il Mulino, 2011
Istat, La Conciliazione tra lavoro e famiglia, Statistiche Report, Roma, dicembre 2011
Istat, Rapporto annuale 2014. La situazione del paese, Roma, maggio 2014
A. Rosina, M. Albertini, L’Italia salvata dai nonni. (Finchè dura la salute), 20-01-010, in
A cura di LeNove-studi e ricerche. Rapporto sul’attuazione della Piattaforma d’Azione di Pechino. Rilevazione quinquennale: 2009 – 2014. Cosa veramente è stato fatto in Italia, rapporto ombra a cura della società civile e di singole esperte, Roma, Luglio 2014.